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sabato, Luglio 27, 2024
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EPISODIO 3 – ELOGIO ALLA BRUTTEZZA TIPOGRAFICA AKA IL BRUSH SCRIPT

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INTRO

La scorsa volta abbiamo fatto un salto nel passato che ognuno di noi vuole celare a se stesso, per motivi più o meno traumatici ma comunque tutti legati a quelle terribili ricorrenze annuali con cadenza mensile altresì definite “feste di compleanno delle amykette del quore” (vedi Ep.2 – Il Curlz MT). 

Questo episodio de “La rivincita dei brutti” odora di brillantina, di gonne a ruota a pois, di riporti, di John Travolta che balla in pantalone di pelle stra-attillato assieme alla sua gang di T-Boys. Odora di frappè al cioccolato con mezzo kg di panna spray n’copp. Mai senza quella poraccissima ciliegina candita rossa come il cofano delle Chevrolet Corvette.

Quei frappè che ora puoi trovare in quei fake-locali anni ’50, con la camerierina sottopagata che ti serve al tavolo, sfoderando le sue armi più temibili.
No, non sto parlando della sua quinta ingestibile, ma delle tovagliette in carta grammatura 60mg cariche di promozioni “martedì hamburger+cinemino+sconto del 15% alla cassa del cinema+posteggiatore personale+bambino cinese personale che ti assiste per tutta la durata del film”.

Al centro della tovaglietta, su una grafica di base più simile alle insegne al neon di Las Vegas, campeggia un bel

IN BRUSH SCRIPT.
GNAM.


Partorito dalla mente così dannatamente rock’n roll di Robert E. Smith nel lontano 1942, per conto dell’American Type Founders (ATF), il nostro amatissimo Brush Script è forse una delle prime brush font della storia, laddove per “brush” intendiamo un carattere quasi uscito fuori dal tratto fluido di un pennino ad inchiostro.

Un po’ come se fosse il bisnonno di tutte quelle font che adesso vengono usate e abusate negli inviti e nei segnaposti dei matrimoni, con i fondini acquerello e i fiorellini. Quelle con quei subdoli ricciolini che “leggibilità levati” e che piacciono tantissimo alle 16enni.

Possiamo vedere come ogni lettera si connette in un abbraccio unico con quella successiva; il modo migliore per enfatizzare quell’aspetto hand-written/brushybrushy che ha di default una font dal sapore hand-made. Peccato che nessun essere umano scriva realmente così.

Il Brush Script venne usato per anni da enti pubblici, amministrativi e aziende, quasi come medium per arrivare al popolo in modo più “casual”. Una ruffianata, ‘nzomma.

Quanto al suo creatore, era uno spirito Rockabilly, questo Robert Smith. Già negli anni ’40 progettò una font che avrebbe segnato i famosi “Roaring 50s”.
Un carattere caratteristico. Perdonate la ripetizione ma dovevo prendermi questa licenza poetica: se la Crusca sostiene che si che si può dire “scendere il cane” a ‘sto punto posso anche andare a letto senza sensi di colpa.

Ma bando alle ciance, parlavamo di caratterizzazione di un carattere nel vero senso della parola. Il Brush Script ha tutte le carte in regola per essere una font iconica, riconducibile a un determinato periodo storico. Il che è un bene. Cioè, almeno ha una sua identità. O comunque un suo punto di forza.

Peccato che siamo nel 2019.

E succede che una sera vai a cena con il tuo moroso o la tua morosa e siete tutti e due veramente euforici perché state andando a mangiare pesce fuori dopo mesi di pizza da asporto per cena il sabato sera. E quella magggia improvvisamente cala con il calare del vostro sguardo sul menu. Portate scritte in Brush Script, prezzi, sezioni, PERFINO LE VOCI ASTERISCATE DEL PRODOTTO SURGELATO MANNAGGIALLAMISERIA 30 EURO PER UN PEZZO DI TONNO.

“Stasera ci spennano”. Però se il menu è in Brush Script allora ci spennano con informalità e ha tutto un sapore più digeribile.


Quello del menu è solo uno dei tantissimi esempi di abuso di Brush Script all’interno del nostro background quotidiano.

Signori miei, toglietevi quella spocchia da “uso solo Helvetica e tutto il resto è noia” perché l’impomatato Robert Smith ci ha visto davvero lungo.

Infatti se casualmente vi foste trovati a bazzicare dalle parti di Broadway tra la 53th e la 54th Avenue, nel periodo che va dal 1993 al 2015, da bravi turisti esterofili è pressoché impossibile che non abbiate fatto tappa davanti al tempio della conoscenza.

L’Ed Sullivan Theater che, proprio in quegli anni, ha ospitato il celebre Late Show del grande David Letterman.

Eccolo lì, il nostro amato Brush Script. Neon bianco accecante, un bagliore che ti conquista e che ti resetta il cervello alla Man in Black.
Qualcosa tipo “voglio una font dal tono informale-ma quasi istituzionale, calligrafico-ma non troppo, che sembri una firma-ma anche no”.

Riassunto in due parole, BRUSH SCRIPT.

Sì perché digiamolo.
Tutto ha tranne che del calligrafico.

Nel 1950 potrei anche accettare insegne, cartelloni pubblicitari e poster fuori dai negozi che segnalano l’arrivo dei saldi, interamente ricoperti di Brush Script, MA NEL 2019 MANNAGGIAVVOI.

Ormai l’Internet ci offre un database di brush font gratuite da far tremare qualsiasi futura sposina indecisa che deve preparare le bomboniere e non sa che carattere usare sui bigliettini nel sacchetto dei confetti.
O da far venire una sincope al tipico pubblicitario alle prese con quei cartelloni da Route 66, grandi quanto il malessere generato ogni qualvolta decide di usare il Brush Script nei suoi progetti.


Con l’etica messa a dura prova questa volta faccio fatica a concludere trovando dei pregi nel Brush Script, ma vincerò questa battaglia in nome del buongusto tipografico.

Ognuno ha dei pregi. Basta mettersi lì e, con tutta la pazienza del mondo, andarseli a trovare.
Il Brush Script è

cioè

ha

è molto 50s, ecco. E chi di noi non ama gli anni ‘50?
Poi dai, è dannatamente impattante accipigna. Sfido a non notarlo.
Perché, in fin dei conti, il mondo funziona anche così; è come andare in giro vestiti malissimo. La gente ti guarda, e magari ti sparla dietro, ma almeno ti guarda.

Quindi, Brush Script, lascia che ti dissino alle spalle. I 15 minuti di gloria alla Andy Warhol li hai praticamente ogni giorno. Tu lascia correre, che del sano odio è molto meglio di una bella dose di indifferenza, sient’ammé.

Per tutto il resto,

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Serena Marzaduri
Serena Marzaduri
Graphic designer di 24 anni, laureata in Design e Comunicazione Visiva presso l’ISIA di Faenza. Vive e lavora a Bologna, tra le sue torri, i localini di musicisti emergenti postpunknewwaveradicalchic e l’onnipresente odore di ragù della domenica diffuso nell’aria. Batterista, costantemente affamata, dannatamente curiosa, logorroica. Appassionata di tipografia, calligrafia, branding, packaging design ed editoria, non sa ancora bene se i WordArt color arcobaleno siano mero trashume tipografico oppure pura genialità.
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