sabato, Giugno 3, 2023
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Sull’inutilità della censura nella comunicazione

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Ricordo… ah, se ricordo!
Ricordo la mia prima vera fantasia sessuale. Era su un’opera d’arte, se così la vogliamo definire (in realtà era un disegno a matita realizzato da un me paffutello di undici anni su un libro fotocopiato di esercizi per le vacanze estive).
Leggevo della storia di Eracle e Ila da un estratto degli Argonauti, e di come quest’ultimo fosse stato attirato ad una fonte da un gruppo di ninfe che si invaghirono di lui, trascinandolo in quelle profonde acque. Ricordo di come leggendo quella storia venne l’impulso inspiegabile (almeno al tempo) di disegnare quella scena e ricordo distintamente il momento in cui, mentre la disegnavo, qualcosa in me si svegliava. Potete immaginare cosa, così come il resto.

Grazie del bellissimo aneddoto sui tuoi primi pruriti al basso ventre!

direte, e ne convengo. Tuttavia quest’aneddoto della mia vita passata è quantomai azzeccato per addentrarci nel vero fulcro del discorso, che ha anche stavolta come protagonisti indiretti Ila e le ninfe, stavolta rappresentate da un vero artista, John William Waterhouse, pittore preraffaellita, e di come a distanza di un secolo dalla sua morte sembra non sia cambiato un beneamato.

 

 

Hylas and the Nymphs, olio su tela di John William Waterhouse, (1896), Manchester, City Art Galleries

 

Quanto accaduto è ormai noto a tutti: Clare Gannaway, la curatrice di arte contemporanea della Manchester Art Gallery ha rimosso il celeberrimo quadro di Waterhouse, di fatto censurandolo, e sostituendolo con un pannello bianco che invita al dibattito. Ora, premesso che gli insulti scritti dai visitatori alla curatrice sono altrettanto meritevoli di stare in una galleria (e se fosse stata un po’ più intelligente avrebbe usato questo pretesto degli insulti per un’opera d’arte concettuale…) va comunque ricordato che questo non è né il primo né senza dubbio l’ultimo episodio di censura nel mondo dell’arte, e non voglio nemmeno parlare del fatto che tale decisione è stata presa dalla curatrice fattasi forte dell’imperversare del movimento #metoo perché entreremmo in una girandola infinita di considerazioni sul fenomeno che non sono argomento di questo testo (anche se va notata l’idiozia nell’applicazione del pensiero nel caso specifico: sono le ninfe ad insidiare Ila, non il contrario…). Lo stesso dipinto, all’epoca, venne aspramente criticato.

Già, all’epoca. E tutto ciò mi da parecchio da pensare.
Siamo ormai nel 2018, che potremmo definire sin dalle sue prime battute come l’anno delle contraddizioni, tra il lancio di Tesla e ciarlatani che spacciano la candeggina come cura contro il cancro. Il solo fatto che andando a ritroso nel tempo ogni testo o dissertazione princìpi con l’anno in essere e si ragioni su questioni presenti che dovrebbero ormai considerarsi relegate al passato la dice lunga su come stiamo messi come specie.
Nel 2018 viviamo di contraddizioni, tra un post della procace instagrammer di turno in posa osè con annessa frase di Bukowski e movimenti conservatori che inneggiano ai valori della famiglia, capitanati dall’uomo la cui azienda ha portato quello stesso clima di ingenua dissolutezza nelle case degli italiani tramite il medium televisivo (e qui mi fermo); un’epoca di coming out e della tanto attesa accettazione delle sessualità e di omofobia dilagante. Un’epoca dove vale spiattellare un culo o un paio di tette in prima serata ma non esporre l’opera d’arte di uno dei momenti di massima espressione stilistica della storia dell’arte perché “le ninfe hanno lo sguardo ammiccante” (o meglio, da ninfomani).

La censura è antidemocratica per definizione, e se la applichi ad un’opera in cui è sì rappresentato il desiderio sessuale, ma in maniera talmente sopraffina e delicata che uno qualche domanda se la pone.
Corpi nudi e sguardo voglioso? Sarà, ma a questo punto la pubblicità della Müller che è fatta apposta per alludere (neanche tanto velatamente: fate l’amore con il sapore) all’atto sessuale come la trattiamo? E quelle pubblicità sessiste della Zappalà in cui si simula letteralmente un bukkakke col latte?

 

 

Questa, per intenderci.

 

 

Pur spezzando una lancia a favore dell’advertisement della Müller, poiché compararla al secondo esempio è, da un punto di vista prossemico, come comparare il sole ad un sassolino riscaldato con un accendino, la questione rimane, ed anzi è accentuata dalla portata nettamente superiore che ha una pubblicità rispetto ad un’opera d’arte esposta in galleria.
Ma c’è di più, ed è insito allo scopo che l’advertisement ha rispetto ad un’opera d’arte, che a dirla tutta nella maggior parte dei casi è il medesimo: soddisfare le richieste di un cliente. Molti infatti dimenticano come l’arte sia da sempre stata una sorta di esaltazione dello status quo di Chiesa e classi agiate, che sovente commissionavano opere agli artisti che di questo vivevano, in maniera non molto dissimile da come accade oggi nell’ambito creativo. Io stesso ho una produzione mia, ma per vivere lavoro con una committenza che ha particolari esigenze comunicative e che affida a me e alle mie capacità d’esecuzione l’esito finale. Sta a me, dunque, comprendere qual è la strada migliore per veicolare tale messaggio. Mettendomi mestamente nei panni di Waterhouse, eseguì un lavoro egregio nell’esecuzione, sensuale quanto delicato.
Ciò che è accaduto con la Manchester Art Gallery non è poi tanto dissimile da quanto accade giornalmente su Facebook, in cui illustrazioni di pregio (anche erotiche, ci mancherebbe) vengono segnalate e post che più volgari ed insulsi non si può diventano invece virali.


Chiosando, la libertà d’espressione in ogni sua forma dovrebbe essere sacrosanto diritto di ogni essere senziente. La censura e la chiusura mentale lasciamola alle dittature.
Mi piace pensare, in maniera quasi fanciullesca, che quel quadro torni esposto lì dove è giusto che stia, tornando a suscitare emozioni (e pruriti) a chi lo osserva. D’altronde, perché censurare qualcosa che dovrebbe essere

il punto focale della vostra esistenza su questo pianeta!

citando l’immenso Bill Hicks nel suo famosissimo spettacolo Relentless del 1992. Mentre voi ci pensate, io ripenso a quei miei primi pruriti al basso ventre e mi dirigo verso il mio personale punto focale.

 

 

Center of the Universe- Enzo Triolo

 

 

Questo articolo è stato da me scritto e pubblicato sulla piattaforma Medium e ricaricato su RDG.

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Enzo Triolohttp://enzotriolo.tumblr.com
Visual designer, illustratore e allevatore di mostri.